sabato 8 aprile 2017

Toccante testimonianza pubblica dell'attore Toni Bertorelli



Vi riporto un articolo apparso sul Corriere Fiorentino di oggi

Su e giù dal palco, ubriaco

Schiavo della «bestia» dall’età di otto anni, poi il trapianto e la conversione religiosa L’attore Toni Bertorelli racconta mezzo secolo da alcolista, in scena e fuori. Oggi l’incontro a Firenze




Toni Bertorelli con Paolo Sorrentino sul set di
«The Young Pope» e sotto intento alla lettura nello Studio Rosai di Firenze

«Mi sentivo sempre così debole, insicuro. Come fossi nato sconfitto. Non riuscivo ad avere rapporti con gli altri». Poi è arrivata la «bestia diabolica». Che si è «appollaiata sulla spalla: ti ruba la personalità, il carattere, ti domina». È l’alcolismo. «Ho iniziato a bere quando avevo 8 anni — racconta Toni Bertorelli — ho smesso quando mi hanno trapiantato il fegato. Una conversione religiosa, l’aiuto degli Alcolisti Anonimi. Poi ho scritto questo libro. Nel frattempo avevo vissuto mezzo secolo da alcolista totale. Anche in scena. Sempre ubriaco, ripudiato dalla mia famiglia. Nessuno se ne è mai accorto». Oggi pomeriggio questo magnifico attore che ha attraversato con eleganza e severità 50 anni di teatro e 30 di cinema, al servizio dei più grandi autori italiani, torna a Firenze — dove ha passato 20 anni della sua vita — ospite dello Studio Rosai curato da Fabio Norcini (via Toscanella 18, ore 18) per presentare la sua autobiografia: Voglio vivere senza di te (Iacobellieditore). Quel «te» è la bottiglia. Completamente a nudo, disperatamente fragile. Con fede e coraggio: «L’ho scritto per i giovani, per aiutarli a salvarsi dalla bestia prima che sia tardi». Quel volto demoniaco e torvo da spia, assassino o tiranno, è inconfondibile. «Oggi si direbbe che spacca». È l’ispettore Pigna del delitto Pasolini nel film di Marco Tullio Giordana, il memorabile conte Bulla de L’ora di religione di Bellocchio, il capo del Sisde in Romanzo Criminale, Indro Montanelli ne Il Caimano di Nanni Moretti. In The Young Pope di Sorrentino è il Cardinale Caltanissetta, attaccato alla bombola d’ossigeno.
Ci vuole coraggio, Toni Bertorelli, per raccontarsi così. E ci vuole un motivo.
«Non volevo più vivere nella menzogna. L’ho scritto per amore della verità. Perché avevo tenuto tutto nascosto in quella solitudine disperata che è stata la mia vita. Per ringraziare gli Alcolisti Anonimi che mi hanno salvato strappandomi da questa schiavitù. Grazie a loro ho ritrovato la fede che avevo perduto a 15 anni perché avevo conosciuto il lato peggiore dei sacerdoti, la pedofilia di cui sono stato per fortuna solo testimone e non vittima».
Davvero nessuno si era mai accorto di nulla?
«Ho recitato ubriaco dalla mattina alla sera. Eppure ero gratificato, applaudito, premiato. Ma quando sei preda della bestia, e della cocaina insieme, i rapporti umani sono un dramma. Ho trattato malissimo i miei fratelli, sono stato abbandonato dai miei figli. Ho rischiato di rovinare la carriera a grandi attori come Claudio Santamaria che da giovanissimo venne a fare un provino alla mia compagnia. Lo mandai via in malo modo, dicendogli che mai avrebbe fatto l’attore. Quindici anni dopo eravamo insieme in Romanzo Criminale. Non mi ricordavo niente di quell’episodio e alla festa del cast pre-uscita del film andai a complimentarmi con lui». Come reagì? «“Grazie maestro”, mi disse. “Ma lei tanti anni fa mi ha mandato a quel paese”. Essere alcolista significa anche totale indifferenza alla sensibilità degli altri. Che figura tremenda...»
E con Moretti, Bellocchio, Sorrentino, autori difficili, severissimi, come faceva?
«Riuscivo a rimanere sereno anche dopo il trentesimo ciak imposto da Nanni su un solo primo piano di pochi secondi, perché magari s’impuntava sul fatto che avessi sollevato il sopracciglio di mezzo centimetro di troppo. Bellocchio invece è un amico, da sempre. Quando ha letto il libro è trasalito. Non ci voleva credere. Non avevo conflitti per il rispetto che porto al ruolo del regista: l’attore è un pittore che dipinge senza mai vedere il quadro. È il regista che guarda al posto tuo».
Quando ha girato «The Young Pope» era appena uscito dall’ospedale per il trapianto.
«Ero debilitato. Ma avevo già fatto il provino. Poi esce il libro, Paolo viene a sapere del mio alcolismo. E ha voluto fare un altro provino. Mi chiese di fare le scale per vedere come camminavo». E lei? «Le ho fatte di corsa, senza appoggiarmi al mancorrente». E lui? «“No, no, no” ha iniziato a urlare. “Rallenta!”. Il tuo personaggio è un novantenne attaccato alla bombola di ossigeno. Ho tirato un sospiro di sollievo: “Sarò un cardinale perfetto!” In effetti avevo esagerato».
Qual è stato il suo momento di maggiore difficoltà?
«Proprio a Firenze, quando lavoravo con Carlo Cecchi, che è stato il mio maestro al pari di Bellocchio per il cinema. Eravamo al Niccolini, che per tutti gli anni ‘80 e ‘90 è stata la mia seconda casa: era il 1990 e facevamo One for the road di Harold Pinter. Dovevo essere ubriachissimo in scena e Pinter è tremendo, ti scava dentro, ti fa sentire una merda. Era una scena di tortura e per la prima volta riconobbi in me un torturatore. Ho iniziato lì ad avere i primi tentennamenti».
Della sua vita a Firenze cosa ricorda?
«Tanti bar purtroppo. In quello di piazza Pitti io e Donato Sannini abbiamo anche battezzato un nuovo cocktail, il Deformante: champagne, whisky e birra in serie. Frequentavo molto il Monni e Angelo Savelli. Ma Donato era peggio di me. Una notte si addormentò nell’armadio».
 La maggiore difficoltà l’ho avuta qui, con Cecchi. Sorrentino? Mi ha fatto fare le scale